La storia di Don Bosco in 79 righe
La storia di don Bosco comincia sulle colline del Monferrato. I Becchi era una piccola frazione di Castelnuovo d'Asti (ora Castelnuovo don Bosco), e lì Giovanni Bosco vide la luce in una povera famiglia di contadini il 16 agosto 1815. Suo padre, Francesco, morì di polmonite quando Giovanni aveva appena due anni. La mamma, Margherita, lo tirò su con tenerezza ed energia. Gli insegnò a lavorare la terra e a vedere Dio dietro la bellezza del cielo, l'abbondanza del raccolto, il temporale che schiantava le viti. E gli insegnò a pregare. Per Giovanni, pregare voleva dire parlare con Dio in ginocchio sul pavimento della cucina ma anche pensare a lui seduto sull'erba del prato, fissando lo sguardo nel cielo. Da sua madre, Giovanni imparò a vedere Dio anche nella faccia degli altri, dei più poveri: nella faccia dei miseri che d'inverno venivano a bussare alla porta della loro casetta, e ai quali Margherita rattoppava le scarpacce e dava un brodo caldo. A 9 anni, Giovanni ha il primo, grande sogno che marchierà tutta la sua vita. Vede una turba di ragazzi che giocano e bestemmiano. Un uomo maestoso gli dice: "Con la mansuetudine e la carità dovrai conquistare questi tuoi amici". E una Donna altrettanto maestosa aggiunge: "Renditi umile, forte e robusto, e a suo tempo tutto comprenderai". Gli anni che seguirono furono orientati da quel sogno. Figlio e madre videro in esso l'indicazione di una strada per la vita. A far del bene ai ragazzi sbandati, Giovanni ci prova subito. Quando le trombe dei saltimbanchi annunciano una festa patronale sulle colline intorno, Giovanni ci va, e si mette in prima fila davanti ai ciarlatani che danno spettacolo. Studia i trucchi dei prestigiatori, i segreti degli equilibristi. Una sera di domenica (dopo aver provato e riprovato tra cento capitomboli) Giovanni dà il suo primo spettacolo ai ragazzi della borgata. Fa miracoli di equilibrio con barattoli e casseruole sulla punta del naso. Poi balza sulla corda tesa tra due alberi, e vi cammina tra gli applausi dei suoi piccoli spettatori. Prima del "brillante finale", ripete la predica sentita alla Messa del mattino (che pochi di quei ragazzi hanno sentito, perché la chiesa è lontana, e perché "dare ascolto ai preti" in quei decenni è passato un po' di moda). E poi invita tutti a pregare. I giochi e la parola di Dio: un binario che scorrerà per tutta la vita di Giovanni Bosco. Giovanni è sicuro che, per far del bene serio a tanti ragazzi sbandati, deve studiare e diventare prete. Ma il fratello Antonio, che ha già 18 anni ed è un contadino rozzo, non ne vuol sapere. Gli getta via i libri, lo picchia. Una gelida mattina del febbraio 1827, Giovanni parte da casa e va a cercarsi un posto da "ragazzo di stalla". Ha solo 12 anni, ma per le violente litigate con Antonio, in casa la vita è ormai impossibile. Per tre anni lavora come piccolo vaccaro nella cascina Moglia, vicino a Moncucco. Conduce le bestie al pascolo, munge le mucche, porta il fieno fresco nelle mangiatoie, guida i buoi che arano i campi. Nelle lunghe notti d'inverno, e seduto all'ombra degli alberi d'estate (mentre le mucche brucano intorno) torna ad aprire i suoi libri, a "studiare". E prega Dio che "gli apra una strada". Tre anni dopo, Antonio si sposa. Giovanni può tornare a casa e frequentare prima le scuole di Castelnuovo, poi quelle di Chieri. Per pagarsi la pensione nel tempo libero fa il sarto, il fabbro, il barista, dà ripetizioni. E' intelligente e brillante, e attorno a lui si coagulano i migliori ragazzi della scuola. Con loro fonda il suo primo gruppo (quanti ne fonderà nella vita!), la "Società dell'allegria". A vent'anni, nel 1835, Giovanni Bosco prende la decisione più importante della sua vita: entra in Seminario. Sei anni di studi intensi, che lo portano ad essere prete. 5 giugno 1841. L'Arcivescovo di Torino consacra prete Giovanni Bosco. Ora "don Bosco" potrà finalmente dedicarsi ai ragazzi sbandati che ha visto in sogno. Va a cercarli per le strade di Torino. "Fin dalle prime domeniche - testimoniò un ragazzo che incontrò in quei primi mesi, Michelino Rua - andò per la città, per farsi un'idea delle condizioni morali dei giovani". Ne rimase sconvolto. I sobborghi erano zone di fermento e di rivolta, cinture di desolazione. Adolescenti vagabondavano per le strade disoccupati, intristiti, pronti al peggio. Li vedeva giocare ai soldi agli angoli delle strade con la faccia dura e decisa di chi è disposto a tentare qualunque mezzo per farsi largo nella vita. Accanto al mercato generale della città (che in quel momento aveva 117 mila abitanti) scoprì un vero "mercato delle braccia giovani". "La parte vicina a Porta palazzo - scriverà anni dopo - brulicava di merciai ambulanti, venditori di zolfanelli, listrascarpe, spazzacamini, mozzi di stalla, spacciatori di foglietti, fasservizi ai negozianti sul mercato, tutti poveri ragazzi che vivacchiavano alla giornata". Quei ragazzi per le strade di Torino erano un "effetto perverso" di un avvenimento che stava sconvolgendo il mondo, la "rivoluzione industriale". Nata in Inghilterra, aveva passato rapidamente la Manica e scendeva a sud. Avrebbe portato un benessere mai pensato nei secoli precedenti, ma l'avrebbe fatto pagare con un pauroso costo umano: la questione operaia, gli ammassi di famiglie sotto-povere alle periferie delle città, immigrate dalle campagne in cerca di fortuna. L'impressione più sconvolgente, don Bosco la provò entrando nelle prigioni. Scrisse: "Vedere un numero grande di giovanetti, dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d'ingegno sveglio, vederli là inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare pane spirituale e materiale, fu la cosa che mi fece orrore". Uscendo, aveva preso la sua decisione: "Devo impedire ad ogni costo che ragazzi così giovani finiscano là dentro". Le parrocchie di Torino erano 16. I parroci sentivano il problema dei giovani, ma li aspettavano nelle sacrestie e nelle chiese per i catechismi comandati. Non si accorgevano che, sotto l'ondata della crescita popolare e dell'immigrazione, quegli schemi di comportamento erano saltati. Occorreva tentare vie diverse, inventare schemi nuovi, provare un apostolato volante tra botteghe, officine, mercati. Molti preti giovani provavano. Don Bosco avvicinò il primo giovane immigrato l'8 dicembre 1841. Tre giorni dopo, attorno a lui erano in nove, tre mesi dopo venticinque, nell'estate ottanta. "Erano selciatori, scalpellini, muratori, stuccatori che venivano da paesi lontani" ricorda nelle sue Memorie. Nasce il suo oratorio. Non è una faccenda di beneficenza, né si esaurisce alla domenica. Cercare un lavoro per chi non ne ha, ottenere condizioni migliori per chi è già occupato, fare scuola dopo il lavoro ai più intelligenti diventa l'occupazione fissa di don Bosco. Alcuni dei suoi ragazzi, però, alla sera non sanno dove andare a dormire. Finiscono negli squallidi dormitori pubblici o nelle soffitte subaffittate degli strozzini. Don Bosco tenta due volte di dare ospitalità: la prima gli portano via le coperte, la seconda gli svuotano anche il piccolo fienile. Ritenta, testardo ottimista. Nel maggio 1847 ospita un ragazzotto immigrato dalla Valsesia, spinto a bussare alla sua porta da una pioggia infinita. Gli prepara un rustico letto accanto al focolare acceso, in due stanze che ha affittato nel quartiere basso e maleodorante di Valdocco, e dove abita con sua madre. "Avevo tre lire quando sono arrivato a Torino - mormora il ragazzo - ma non ho trovato lavoro, e sotto questa pioggia non so dove andare. Dopo il ragazzo della Valsesia, in quel 1847, ne arrivano altri sei. Accanto all'oratorio comincia a funzionare una casa-convitto. In quei primi mesi i soldi diventano un problema drammatico per don Bosco. Lo saranno per tutta la vita. La sua prima benefattrice non è una contessa, ma sua madre. Margherita, povera contadina di 59 anni, ha lasciato la sua casa dei Becchi per venire a far da madre ai ragazzi senza nessuno. Di fronte alla necessità di mettere insieme il pranzo con la cena, vende l'anello, gli orecchini, la collana del suo matrimonio, che fino allora aveva custodito gelosamente. I ragazzi ospitati da don Bosco nella casa-convitto diventano 36 nel 1852, 115 nel 1854, 470 nel 1860, 600 nel 1861, fino a toccare il tetto di 800. E tra quei ragazzi, qualcuno gli chiede di "diventare come lui", di spendere la vita per altri ragazzi in difficoltà. Nascerà così la Congregazione Salesiana. I primi a farne parte sono Michelino Rua, Giovanni Cagliero (che diventerà cardinale), Giovanni Battista Francesia. Nell'archivio della Congregazione Salesiana si conservano alcuni documenti rari: un contratto di apprendistato in carta semplice, datato novembre 1851; un secondo in carta bollata da centesimi 40, con data 8 febbraio 1852; altri con date successive. Sono tra i primi contratti di apprendistato che si conservano in Torino. Tutti sono firmati dal datore di lavoro, dal ragazzo apprendista e da don Bosco. In questi contratti, don Bosco mette il dito su molte piaghe. Alcuni padroni usavano gli apprendisti come servitori e sguatteri. Egli li obbligava ad impiegarli solo nel loro mestiere. I padroni picchiavano, e don Bosco esigeva che le correzioni fossero fatte solo a parole. Si preoccupava della salute, del riposo festivo, delle ferie annuali. Ma nonostante ogni sforzo, ogni limatura nelle clausole dei contratti, la condizione dei piccoli lavoratori, in quel tempo, rimaneva troppo dura. Nell'autunno del 1853 don Bosco rompe gli indugi e inizia nell'Oratorio di Valdocco (così si chiama sia l'oratorio propriamente detto, sia la casa-convitto) i laboratori dei calzolai e di sarti. Quello dei calzolai è strettissimo, piazzato in un localino accanto al campanile. Don Bosco si siede a un dischetto, e davanti a quattro ragazzi martella una suola. Poi insegna a maneggiare la lesina e lo spago impiegato. Dopo i calzolai e i sarti vengono i legatori, i falegnami, i tipografi, i meccanici. Sei laboratori in cui i posti privilegiati sono "per gli orfani, i ragazzi totalmente poveri e abbandonati" (foglio-regolamento). Per questi laboratori, che presto trapianta in altre opere salesiane fuori Piemonte e poi fuori d'Italia, don Bosco "inventa" un nuovo genere di religiosi: i coadiutori salesiani. Di uguale dignità e diritto dei preti, ma specializzati per le scuole professionali (alla morte di don Bosco, le scuole professionali salesiane saranno 14, distribuite in Europa e America del Sud. Cresceranno fino a toccare il numero di 200). Negli anni che seguono con un lavoro a volte estenuante, don Bosco realizza opere imponenti. Accanto ai Salesiani fonda la Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice e i Cooperatori Salesiani. Costruisce il santuario di Maria Ausiliatrice in Valdocco e fonda 50 case dei Salesiani e 54 di suore Figlie di Maria Ausiliatrice in sei nazioni. Inizia le Missioni Salesiane inviando preti, coadiutori e suore nell'America Latina. Pubblica e scrive lui stesso collane di libri popolari "per la gente cristiana e i ragazzi del popolo". Inventa un "sistema di educazione" familiare, fondato su tre valori: ragione, religione, amorevolezza, che presto tutti riconoscono come il "sistema ideale" per educare i giovani. Quando qualcuno gli elenca le opere che ha creato, don Bosco interrompe brusco "Io non ho fatto niente. E' la Madonna che ha fatto tutto". Gli ha tracciato la strada con quel misterioso "sogno", quando era un ragazzetto, e con tanti altri misteriosi "sogni" successivi, che lasciano ancora perplessi gli studiosi della sua figura. Morì all'alba del 31 gennaio 1888. Ai Salesiani che vegliavano attorno al suo letto, mormorò nelle ultime ore: "Vogliatevi bene come fratelli. Fate del bene a tutti, del male a nessuno. Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso". Il messaggio di don Bosco? La vita, questo grande dono di Dio, bisogna spenderla, e spenderla bene. Non chiudendosi nell'egoismo, ma aprendosi all'amore e all'impegno dei tanti che sono più poveri di noi.
Don Teresio Bosco
Don Teresio Bosco